Baciami il male

Baciami il male

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Antonio Davini

Lettere 369 | ed. gennaio 2024 | p. 134

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Descrizione

Baciami il male è una richiesta di asilo di sentimenti perturbanti, un grido di dolore che cerca accoglienza e condivisione attraverso la creazione di storie nelle quali ognuno può ritrovare un po’ di se stesso e sentirsi più leggero.
In una serie di 10 racconti, Antonio Davini, classe 1969, oggi imprenditore agricolo, affida a Elisa, Sandro e Mia, fra gli altri, il compito di portare parte dei propri pesi mediante la fine narrazione di preziosi istanti dell’animo umano. Rovistando tra i ricordi del passato, resuscitando emozioni sopite e abbandonate, l’autore cerca di dare un nuovo significato alla sofferenza e ci offre spaccati di vite di personaggi catartici con ingombranti passati, sullo sfondo di periferie e di piccole cittadine di provincia, oppure incorniciati in polverose fotografie della campagna padana, in cui traspare tutto il suo amore per la terra.
Uno sguardo estremamente sensibile e consapevolmente maturo che sente lo scorrere incessante del tempo del mondo e racconta per non smarrirsi e per rinascere. Non sempre è lieta la fine ma batte forte la luce della speranza.

Elisa
Aveva la maglietta sudata.
Odiava sudare.
Soprattutto d’autunno quando l’aria fresca ti raffredda subito la pelle, ma il sangue scorre caldo dentro le vene.
Aveva spinto sui pedali per essere puntuale al suo appuntamento.
Aveva svicolato tra le auto, fremuto ai semafori rossi, sentito il vento che le alzava i capelli neri in corsa.
Un po’ le piaceva essere in ritardo, perché aveva un motivo per correre veloce in bicicletta.
Quasi fosse autorizzata.
E andare così in bicicletta per lei era bello solo se lo doveva fare per un motivo.
Ovvero essere in ritardo. Allora era giustificata.
E poteva far finta di volare. Di essere un po’ veloce, in un mondo che lo era troppo.
Il sudore le imperlava la fronte, ma erano ancora piccole gocce che si toglieva elegantemente con il dito, per non farle diventare più grandi.
Odiava sudare Elisa.
Quando lo faceva le sembrava che tutti se ne accorgessero.
Guardò l’orologio ed era in orario al suo appuntamento.
Ce l’aveva fatta.
Legò la bicicletta ad un palo e come al solito un pensiero le attraversò la mente.
Sperò di ritrovarla a suo ritorno.
Ci era affezionata a quella vecchia bicicletta color amaranto.
La faceva sentire speciale. Unica. Diversa dalla massa.
Un giorno l’avrebbe sostituita con qualcosa di più veloce e comodo.
Ma non era ancora arrivato il tempo.
Guardò ancora il piccolo orologio dorato al suo polso per conferma.
Si sistemò i jeans davanti ad un ipotetico specchio. Era in ordine.

Anche se sentiva un po’ di sudore formarsi ancora sulle gambe calde.
Fece pochi passi sul marciapiede incrociando due ragazzi della sua età.
Tenne la testa bassa.
Non voleva incontrare il loro sguardo… la cosa le dava fastidio da sempre.
Perché una donna non poteva andare a testa alta guardando le persone in faccia?
Incrociare gli sguardi senza per forza attirare attenzioni?
Questo non lo capiva. Questo non lo accettava.
Ma eseguiva, come era sempre stato.
Si doveva fare così!
Con la coda dell’occhio vide uno dei due che si girava per guardarle il sedere.
Era una bella ragazza, Elisa. Non appariscente. Di una bellezza riservata.
Che non cogli al primo sguardo, ma se solo ti soffermi un attimo…
Era una bellezza che si confondeva tra la folla, destinata a chi non fosse superficiale.
A chi avesse il dono di notare i particolari.
Aveva indossato abiti semplici questa mattina. Scegliendoli con cura.
Per sentirsi a proprio agio. Era un appuntamento importante.
Non doveva apparire, ma sentirsi sicura di sé.
Non bastavano i vestiti.
Non bastavano mai soltanto i vestiti per sentirsi sicura di se stessa.
Aveva sempre un po’ di incertezza, paura di sbagliare o dire la cosa inappropriata.
Quando sei insicuro di te non pensi che anche le altre persone potrebbero provare le tue stesse paure. Un pensiero così già ti darebbe più sicurezza.
Sei focalizzato su di te. Come se fossi l’unico in esame.
Come se fosse un grande Truman show.
Da piccola lo credeva davvero.
Pensava che tutti fossero attori, messi lì apposta per vedere le sue reazioni e che ci fosse una regia che pilotava la sua vita.
Quando dormiva potevano scrivere un nuovo copione per il giorno seguente. E preparare le scene. Inserire nuovi imprevisti, dolori, giochi, momenti di noia, desideri.
Anche i suoi genitori erano attori. Avevano la parte più importante dopo la sua.
Lei era comunque l’indiscussa protagonista.
Tutto le ruotava intorno.
Per mandare in onda uno show senza alcun senso.
Chi avrebbe mai guardato la vita di una bambina?
A chi interessava in realtà?
Un po’ ci credeva ancora, a volte.
Le attraversava la mente quella idea che prontamente scacciava con sufficienza e un po’ di tenerezza per occuparsi di cose più importanti.
Si sistemò meglio gli occhiali da vista davanti a due occhi neri bellissimi e un po’ stanchi.
Era arrivata davanti al massiccio portone di legno.
Sembrava una fortezza quel palazzo con quell’ingresso così maestoso.
Un’ambulanza a sirene spiegate la fece voltare di soprassalto. La seguì con lo sguardo fino a quando si fu lontana, cercando inutilmente di intravedere dietro i vetri opacizzati i movimenti dei soccorritori.
Chissà chi era la persona sdraiata sulla barella?
Poteva essere un anziano? O una giovane donna… o peggio un ragazzo?
Chissà quanto e se soffriva?
Lei lo conosceva il dolore.
L’aveva assaporato.
Sia quello insistente e duraturo.
Che quello breve e lancinante.
Ne aveva già assaggiato una buona fetta della torta di dolore che la vita ti riserva.
L’aveva conosciuto e sopportato. Pazientemente e con speranza.
O con la disperazione dei momenti in cui non ce la fai più e non vorresti mai esser nata.
E lì aveva anche pregato che finisse perché ne aveva abbastanza.
Che non tutto in una volta.
Per favore.
Ma il regista del Truman show non l’aveva ascoltata.
Forse davvero non esisteva una regia.
Forse era tutto buttato a caso, come dadi su un tappeto verde
ed intanto che osservi la parabola che si disegna in aria, in quei pochi
decimi di secondo prima che tocchino il tavolo, riponi in un respiro trattenuto tutta la fiducia che puoi racimolare dentro di te… per farti uscire
dei numeri, non dico vincenti, ma almeno un tiro nullo, che ti faccia
poter tirare di nuovo.
Da capo. Magari poter ricominciare, con i dadi in mano… ed ancora più fiducia nel cuore… e magari sarebbe stata la volta buona.